Bruno Arpaia - "Qualcosa là fuori"
Editrice Guanda, 2017
L’Autore
Bruno Arpaia, nato a Ottaviano (NA), vive a Milano. Laureato in Scienze Politiche, è romanziere, giornalista, consulente editoriale e traduttore di letteratura spagnola e latinoamericana.
Tra le sue pubblicazioni: I forestieri, Il futuro in punta di piedi, Tempo perso (Premio Hammett Italia 1997), L'angelo della storia (Premio selezione Campiello 2001, Premio Alassio Centolibri - Un autore per l'Europa 2001), Il passato davanti a noi (Premio Napoli e Premio Letterario Giovanni Comisso 2006), Per una sinistra reazionaria. Nel 2011 pubblica un romanzo a carattere scientifico intitolato L'energia del vuoto. Nel 2014 pubblica il giallo Prima della battaglia. Un'indagine del commissario Malinconico, nel 2016 Qualcosa, là fuori e nel 2020 Il fantasma dei fatti.
Per approfondire https://it.wikipedia.org/wiki/Bruno_Arpaia
Il Libro
Qualcosa là fuori è una climate fiction, un filone della fantascienza che affronta la questione dei cambiamenti climatici attraverso la distopia descrivendo un futuro in cui l'uomo deve sopravvivere in un pianeta che ha subito dei mutamenti. Il termine "Climate fiction" viene anche abbreviato in Cli-Fi. (Wikipedia).
Arpaia descrive un gruppo di italiani che nel 2070 si trovano in marcia attraverso un'Europa arida e invivibile, dove gli stati sono dominati da predoni e anarchia, verso la Svezia e la speranza di una vita migliore. Anticipa così già nel 2016 molti dei temi che sono oggi una realtà purtroppo testimoniata dagli scienziati e dai report IPCC https://ipccitalia.cmcc.it/
Il protagonista, Livio Delmastro, anziano professore di neuroscienze, è uno di loro. Ha insegnato a Stanford, ha avuto una magnifica compagna, è diventato padre, ma alla fine è stato costretto a tornare in un’Italia quasi desertificata, sferzata da profondi sconvolgimenti sociali e politici, dalla corruzione, dagli scontri etnici, dalla violenza per le strade. Lì, persi la moglie e il figlio, per sedici anni si è ritrovato solo in un mondo che si sta sfaldando, senza più voglia di vivere, ma anche senza il coraggio di farla finita. Poi, come migliaia di altri, ha pagato guide ed esploratori e ora, tra sete, fame e predoni, cammina in colonna attraverso terre sterili, valli riarse e città in rovina, in un continente stravolto e irriconoscibile… Un romanzo visionario e attualissimo, che ci fa vivere le estreme conseguenze del cambiamento climatico già in atto e realizza quel «ménage à trois» fra scienza, arte e filosofia che, come sosteneva Italo Calvino, costituisce la vocazione profonda della migliore letteratura italiana (dal sito Guanda).
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Per avere un’idea di cosa vi aspetta nella lettura di questo splendido romanzo riportiamo uno stralcio dalle prime pagine.
Nessuno ricordava più con esattezza quando era cominciato tutto. Forse perché non c’era stato un vero e proprio inizio, forse perché si era trattato di una lenta e implacabile alleanza di eventi impercettibili, di alterazioni minime che, almeno in apparenza, cambiavano poco o nulla, finché, quasi di colpo, ci si era ritrovati in quel disastro. Teoria delle catastrofi: una teoria di fine Novecento, che riguardava i mutamenti improvvisi causati da piccole, successive alterazioni in un sistema, come il passaggio da un bruco a una farfalla, un nuvolone che si trasforma bruscamente in pioggia, ma anche quello sfacelo in cui, quasi senza rendersene conto, il mondo era precipitato.
Livio Delmastro, invece, ricordava. Ricordava benissimo quando, da bambino, aveva visto la famosa immagine dell’orso polare intrappolato su un pezzo di banchisa, alla deriva tra i ghiacci dell’Artico che cominciavano a sciogliersi: il mondo ricco aveva avuto un brivido. Di fronte a quella foto, milioni di persone con la pancia piena avevano provato paura, indignazione, terrore dell’apocalisse che si avvicinava... E poi, subito dopo, avevano pensato ad altro. Ecco, forse era lì che era cominciata tutta quella storia. Livio aveva ancora nelle orecchie le frettolose discussioni che ne erano seguite, le chiacchiere sulle lampadine a basso consumo e sulla necessità di usare meno le automobili che continuava a sentire dagli adulti e alla televisione. Ricordava di aver sentito che nel 2015, a Parigi, per la prima volta 195 paesi avevano sottoscritto un accordo globale sul clima: a molti era sembrata una svolta, una vera e propria rivoluzione; e invece, in realtà, gli impegni presi da ogni nazione a ridurre le emissioni di gas serra, comunque insufficienti, erano soltanto volontari; per di più, non c’era nessun organismo che avesse il potere di farli rispettare davvero. E così la rivoluzione si era trasformata in un fallimento. Ora tutti sapevano che quegli accorgimenti e quegli accordi erano serviti soltanto a dare alla gente l’impressione di avere un certo controllo sul proprio destino, ma non bastavano, anzi erano stati completamente inutili. In fondo, l’umanità pensava ancora di poter riparare quella crepa nel muro, senza capire che forse era già tardi: l’incrinatura nella parete si stava allargando e prima o poi il palazzo sarebbe crollato. […]
In realtà, solo in pochi avevano davvero annusato l’immensità di ciò che li aspettava al varco. Perfino gli esperti dell’Onu, quelli dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, che avevano cominciato a pubblicare regolari rapporti sulla situazione del pianeta, lanciavano allarmi preoccupati e fissavano limiti invalicabili alle emissioni di gas serra, ma non erano riusciti a inserire nelle loro tabelle ogni possibile feedback che forse stava già influendo sul clima, sottovalutando molti fattori di rischio. La verità è che non sapevano ancora calcolarli. Parlavano di ridurre del cinquanta per cento le emissioni inquinanti, di non superare le 450 parti per milione di anidride carbonica nell’atmosfera e di non oltrepassare i due gradi di incremento della temperatura globale, ma solo pochi scienziati d’assalto continuavano a ripetere che quelle misure erano insufficienti, che c’era bisogno di cure più drastiche per evitare il peggio, se pure era ancora possibile evitarlo.
Livio ricordava che all’epoca tutto il dibattito ruotava attorno al cosiddetto «punto di non ritorno»: a quanti gradi di aumento della temperatura media della Terra sarebbe stato oltrepassato? A quante parti per milione di anidride carbonica nell’atmosfera? E in che anno sarebbe successo, se il mondo non avesse preso delle contromisure? A quei tempi, non si sapeva con certezza. Si sapeva, però, che una volta superata quella soglia, probabilmente oltre i due o i tre gradi di aumento della temperatura media, il caldo avrebbe fuso i ghiacciai d’acqua dolce della Groenlandia e dell’Antartico occidentale, facendo innalzare i mari e per di più perdendo una vasta superficie riflettente che fino a quel momento aveva rimandato indietro una parte del calore solare; anche il permafrost, il terreno permanentemente ghiacciato alle latitudini più settentrionali, avrebbe cominciato a sciogliersi e a liberare idrato di metano, ventidue volte peggiore dell’anidride carbonica come agente riscaldante, in un effetto combinato sempre più potente. E a quel punto il riscaldamento globale sarebbe diventato un processo in grado di autoalimentarsi: sarebbe giunto il giorno in cui i meccanismi innescati dall’aumento delle temperature, dal disgelo della tundra e dalla fusione delle calotte artiche si sarebbero sottratti a ogni controllo e avrebbero ricreato il mondo senza il permesso dell’umanità.
Triciclo, luglio 2023