Spunti per una riflessione critica su povertà, conflitti e mercato a partire dall’acqua
di Emanuele Fantini
[Dottorando di ricerca all’Università di Torino e consulente del Ministero Affari Esteri – Direzione generale per la Cooperazione allo Sviluppo in Etiopia e Marocco.]
La foto di un terreno spaccato dall’arsura. Il riepilogo di numeri drammatici: 1,1 miliardi di persone senza accesso all’acqua potabile, 2,6 senza accesso a servizi igienici di base. L’allarme per le guerre che in futuro scoppieranno per l’oro blu. Le virtù del libero mercato per garantire la gestione di un bene sempre più prezioso e strategico.
Questi i tratti con cui è stereotipata la cosiddetta “crisi idrica globale”. Un netto contrasto con la ricchezza e la profondità dei testi e delle immagini della presente raccolta, che invitano a riflettere in modo critico su queste letture, non certo per sminuire la gravità dei problemi, ma per cercare di restituirne l’estrema complessità.
Un problema di accesso più che di scarsità
“Abitiamo sulle sponde del lago ma non abbiamo accesso all’acqua pulita” è la denuncia di Yohannes, rappresentante della comunità del villaggio di Koka, a due passi dall’omonima diga, in Etiopia. Denuncia che riassume alla perfezione l’idea alla base del Rapporto sullo Sviluppo Umano delle Nazioni Unite del 2006, significativamente intitolato “Oltre la scarsità: potere, povertà e la crisi idrica globale”: la mancanza di accesso all’acqua non dipende dalla semplice disponibilità fisica della risorsa, ma bensì da povertà, disuguaglianze e relazioni di potere. Quasi una rivoluzione copernicana per le politiche di sviluppo, tradizionalmente concentrate sull’aumento dell’offerta attraverso dighe, canali ed impianti di desalinizzazione. Senza dubbio in diverse aree del pianeta – la sponda meridionale del Mediterraneo, l’Africa saheliana, il Medio Oriente, la Cina - le risorse idriche pro capite stanno diminuendo drasticamente a causa dell’effetto congiunto dell’aumento demografico, dell’inquinamento e del loro uso non sostenibile. Ma in molti altri paesi come Brasile, Congo o Etiopia, anche se l’acqua non manca, gran parte della popolazione resta a secco a causa dell’assenza di un quadro istituzionale e di politiche pubbliche per favorire l’accesso. E i poveri sono quelli che pagano il prezzo più salato: nelle periferie di Nairobi o Manila l’acqua acquistata dalle autobotti dei rivenditori privati costa da cinque a dieci volte tanto rispetto a quella che esce dai rubinetti dei quartieri più benestanti. Ed è molto più cara di quella a disposizione degli utenti dell’acquedotto di Londra e New York. Ciò costringe i poveri a consumare molta meno acqua rispetto alle fasce benestanti della popolazione e a spendere per l’approvvigionamento una percentuale del loro reddito assai più alta: in El Salvador, Giamaica e Nicaragua il 20% più povero della popolazione spende il 10% del reddito per l’acqua; mentre in Gran Bretagna la soglia del 3% viene considerata come indicatore di indigenza. Carenza di accesso all’acqua e povertà si avvitano così in un perverso circolo vizioso: secondo le stime della Banca Mondiale l’Africa subsahariana perde ogni anno il cinque per cento del PIL per problemi legati alle risorse idriche, una cifra di gran lunga superiore a ciò che la regione riceve in aiuti internazionali.
Tuttavia questa consapevolezza fatica ancora a tradursi in pratica nelle politiche di lotta alla povertà, a cominciare dagli indicatori utilizzati. Nelle statistiche delle Nazioni Unite, per “accesso all’acqua” si intende la disponibilità di acqua potabile a meno di un chilometro o di trenta minuti di cammino, attraverso uno dei seguenti tipi di fornitura: allacciamento domestico, fontanelle pubbliche, pozzi, sorgenti protette o raccolta di acqua piovana. Ad essere misurata è dunque la disponibilità di infrastrutture, senza tuttavia approfondire il numero di utenti effettivi e gli ostacoli all’accesso. La povertà finisce per coincidere con il sottosviluppo inteso come “sotto-infrastrutturazione”. In realtà, non tutte le persone che abitano in prossimità di un punto di distribuzione lo utilizzano effettivamente, preferendo magari ricorrere a fonti alternative (spesso non protette) per comodità legata alla vicinanza o per ragioni economiche legate al costo dell’acqua o ancora a causa di pratiche di discriminazione o di conflitti sociali. La semplice installazione di un pozzo in un villaggio non è sufficiente se non viene inserita nel contesto di un intervento che permetta di trasformare l’acqua in strumento concreto di sviluppo, eliminando gli impedimenti sociali, economici e culturali all’accesso. Per questo occorrono la formazione di comitati per la gestione partecipativa dell’acqua, la sensibilizzazione alle corrette pratiche d’igiene, le attività generatrici di reddito che rendano sostenibile il servizio, la definizione di contesti istituzionali che assicurino lo sfruttamento equo della risorsa.
La minaccia di conflitti e le vie della cooperazione
Hassam, il guardiano della fontana pubblica n. 7 del villaggio di Lakrouta, nella provincia di Settat in Marocco, ci accoglie con il braccio al collo e diversi punti di sutura sul capo. E’ il risultato di uno scontro con suo cugino a proposito della proibizione di far abbeverare gli animali a lato della fontana. Tentativo di risolvere con la violenza il conflitto per la gestione di una risorsa preziosa e limitata? In teoria, da quanto la fontana è stata installata, l’acqua è disponibile in quantità sufficiente per tutti. Ma proprio l’introduzione e la gestione della fontana si sono trasformati in un pretesto per ravvivare antiche rivalità tra nuclei famigliari ed individui. Con buona pace delle moderne ricette dello sviluppo che raccomandano la “partecipazione della comunità locale”, come se questa fosse sempre un’entità armonica e coesa. Nel lanciare l’allarme sulle future guerre per il controllo dell’“oro blu”, spesso ci si dimentica che i conflitti per l’acqua iniziano a livello locale: strumento di pressione ed esercizio del potere, risorsa da distribuire tra usi ed attività concorrenti, simbolo chiave di costruzioni identitarie e culturali.
E’ altrettanto vero che molte di queste dinamiche si ritrovano su scala internazionale, all’interno dei 263 bacini fluviali condivisi da due o più paesi, che ospitano il 60% dell’acqua dolce e il 40% della popolazione mondiale. Il Tigri e l’Eufrate condivisi da Turchia, Siria ed Iraq, il bacino del Giordano disputato tra Israele e i suoi vicini arabi, il Nilo che interessa ben dieci stati rivieraschi, sono i casi che suscitano maggiori tensioni e preoccupazioni. La storia sembra tuttavia indicare che lungo i corsi d’acqua internazionali la cooperazione, piuttosto che il conflitto, rappresenti la regola.
Dall’800 ad oggi sono stati stipulati più di 3600 trattati internazionali in materia di gestione delle risorse idriche e due terzi degli eventi internazionali relativi all’acqua negli ultimi cinquanta anni sono stati di natura cooperativa. Ma affinché la cooperazione funzioni, occorrono delle istituzioni super partes ed efficaci, come nel caso dell’Autorità del bacino del fiume Indo, che opera senza interruzioni dal 1960, reggendo anche all’urto delle due guerre che India e Pakistan, i due paesi rivieraschi, hanno nel frattempo combattuto. Il moltiplicarsi dei titoli sensazionalistici sulle future guerre per l’acqua rischia di instillare nell’opinione pubblica una pericolosa rassegnazione che vede nella violenza l’unico strumento per gestire i conflitti. A livello locale così come nazionale occorre invece lavorare al consolidamento delle istituzioni giuridiche, politiche e sociali in grado di svolgere una preziosissima opera di prevenzione e mediazione.
Al mercato dell’acqua
«Sono a migliaia di chilometri da casa, in mezzo ad un deserto, e bevo l’acqua del mio rubinetto», commentava tra l’ironico e lo stupito un amico in vacanza nel deserto del Negev, al confine tra Israele ed Egitto, dopo aver acquistato in un chiosco una bottiglia di acqua San Benedetto, imbottigliata nel Veneto. Un paradosso che dovrebbe far riflettere sulla presunta razionalità del mercato, che molti invocano come soluzione ai problemi della gestione delle risorse idriche. Una ricetta promossa negli ultimi vent’anni, prima nel contesto dei programmi di aggiustamento strutturale voluti da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale per riequilibrare i conti dei paesi in via di sviluppo, poi in virtù del partenariato pubblico-privato, considerato strumento strategico per migliorare l’efficienza del settore ed attirare i capitali necessari al suo sviluppo. Questa spinta, rafforzata anche dal fallimento di numerose gestioni pubbliche, clientelari ed inefficaci, si è concretizzata nell’affidamento a diversi gruppi multinazionali – primi tra tutti i due colossi francesi Vivendi-Générale des Eaux e Suez-Lyonnaise des Eaux, oggi rispettivamente Veolia e Ondeo – della gestione dei servizi idrici di numerose città, nei paesi industrializzati come in quelli in via di sviluppo.
Verso la fine degli anni novanta, i fallimenti più eclatanti della gestione privata dei servizi idrici, dalle Filippine alla Bolivia passando per Sudafrica e Argentina, hanno messo in luce l’ambiguità e l’opacità del mercato dell’acqua: la presenza di pochi operatori capaci di competere a livello internazionale e la loro riluttanza ad assumersi oneri e rischi degli ingenti investimenti per migliorare le reti di distribuzione; la natura monopolistica del servizio e la lunga durata delle concessioni, in alcuni casi addirittura fino a novanta anni; la debolezza delle istituzioni pubbliche incaricate di regolamentare e monitorare l’operato dei privati; il tentativo di fiaccare il quadro giuridico di riferimento, declassando nelle dichiarazioni internazionali l’acqua da diritto umano a mero bisogno.
Le logiche del profitto hanno inoltre eliminato dal gioco le aree rurali dei paesi in via di sviluppo, dove vive invece la grande
maggioranza della popolazione senza accesso all’acqua potabile.
Le ambivalenze della privatizzazione dell’acqua sono anche evidenti in Italia, dove le aziende municipalizzate sono state trasformate in società per azioni. Alcune sono finite nell’orbita dei gruppi multinazionali, altre restano sotto il controllo degli enti locali, che le gestiscono però con le stesse logiche del privato: quotazioni in Borsa, fatturati di milioni di euro e interessi economici sparsi in tutto il mondo. Operazioni eseguite nell’interesse dei cittadini o degli azionisti? Gli investimenti nel settore dell’acqua scivolano in maniera insidiosa attraverso la porosità dei confini tra stato e mercato, tra pubblico e privato, rendendo indispensabile una cittadinanza sempre più vigile ed attiva.